TURCHIA 2000
di Daniele Chiasserini
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Periodo: |
settembre
2000 |
Paesi attraversati: |
Grecia, Turchia |
Km percorsi: |
circa 5000 |
Giorni di viaggio: |
25 |
Documenti personali: |
passaporto |
Documenti moto: |
carta
verde |
Partecipanti: |
Carla e Daniele |
Moto: |
BMW R 1150 GS |
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PREMESSA
Scegliamo
la Turchia perché rappresenta l'Asia più a portata di mano, l'ideale approccio
con la cultura islamica. C'incuriosisce per il suo ruolo di ponte tra diversi
continenti, per la varietà dei suoi paesaggi, per le testimonianze delle
differenti civiltà che l'hanno popolata nel corso dei secoli.
Prepariamo
l'itinerario nel corso di serate lunghe e morbide, passate a sfogliare la Lonely
Planet nuova di zecca, a leggere le cronache di viaggi scaricate da Internet
o reperite su vecchi numeri speciali di Motociclismo. La Michelin
dispiegata sul pavimento del soggiorno diventa per alcune ore il nostro
universo: riferimento e fondale e necessario complemento al galoppare della
nostra fantasia. Paesi sconosciuti trasformati in tratti e cerchietti e colori e
campiture. Simboli che traducono e danno vita a luoghi tante volte sognati.
Tracciamo
un percorso di massima, del quale fissiamo le tappe fondamentali tentando di
sfruttare al meglio le tre settimane di ferie che abbiamo a disposizione.
Lasceremo, comunque, ampio margine all’improvvisazione.
Per non perdere troppo tempo nell'attraversamento della Jugoslavia e della Bulgaria, decidiamo di tagliare il braccio di mare dell'Adriatico con un traghetto che collega Ancona a Patrasso. Da qui, in due-tre giorni attraverseremo la Tessaglia. All'inizio sanno strade di montagna, linee rosse e sottili, che descrivono infinite spire sullo sfondo verde-marrone. Poi raggiungeremo di nuovo il mare, sul versante orientale della Grecia. Da qui fino a Istanbul le linee rosse si distendono in curve più ampie e morbide, che assecondano da vicino l'andamento della costa. Istanbul è una chiazza grigia di proporzioni enormi. Confrontiamo la sua grandezza con quella di Roma per renderci conto delle sue dimensioni da autentica megalopoli. A Istanbul ci fermeremo alcuni giorni. Desideriamo visitare, oltre alle mete turistiche d'obbligo, anche i quartieri marginali, dove immaginiamo che sia possibile cogliere gli aspetti più autentici della vita dei suoi abitanti, gli scorci meno consueti, le contraddizioni e la complessità di questa città a cavallo tra Europa e Asia. Solo quando ci sembrerà di averne assorbito almeno in parte i colori e gli odori e le vibrazioni, ci lanceremo verso la Cappadocia, in una lunga tirata di autostrada giallorossa e rettilinea. Alla vita metropolitana e caotica si sostituiranno paesaggi brulli e pietrosi, orizzonti lontanissimi e il cielo ambrato e rosso fuoco dei tramonti che abbiamo ammirato nelle fotografie che documentano i resoconti di chi c'è stato. Quindi scenderemo verso la costa sud, attraversando lande desertiche che, a giudicare dallo squarcio di nulla color beige che aprono sulla carta, devono essere sconfinate, e catene montuose impervie, di un marrone molto scuro. Risaliremo la costa turchese verso occidente, rilassandoci qualche giorno sulle spiagge bianche e sabbiose descritte nella guida. A Cesme o un po’ prima ci imbarcheremo per Atene; quindi di nuovo Patrasso, traghetto, Ancona.
In tutto percorreremo circa cinquemila chilometri, diluiti in un periodo abbastanza lungo da non ridurre il viaggio semplicemente a estenuanti trasferimenti in moto. Il bagaglio sarà molto essenziale, per poter essere contenuto nelle due motovalige, alle quali aggiungeremo un borsone cilindrico, da fissare coi ragni elastici al portapacchi posteriore. Per il pernottamento non prenotiamo nulla, per riservarci la possibilità di modificare l’itinerario con assoluta flessibilità, guidati dalla nostra curiosità e dall’ispirazione del momento. Ci avvarremo delle possibilità offerte di volta in volta dalle diverse località che toccheremo, preferendo, naturalmente, le bettole più infime, per contenere il budget e perché rappresentano la soluzione che meglio consente d’immergersi nella realtà locale.
Il
Giesse nero e lucido, riposa sul cavalletto centrale, flemmatico e inossidabile.
Noi ci affanniamo negli ultimi preparativi, sudando un po' per il caldo e per
l’eccitazione. Il nostro abbigliamento è tecnico senza eccedere, abbastanza
sobrio da poterci passeggiare per una città senza sentirci dei marziani;
abbastanza aggressivo da sposarsi con l'immagine di motoviaggiatori duri e puri.
Carla indossa il suo aderente giubbino di cuoio rosso-nero-bianco da pilota
degli anni Settanta, comprato di seconda mano a Portaportese, e sembra la più
navigata delle motard. Anch'io, una volta tanto, non passo inosservato: sulla
mia testa risalta con sconcertante audacia il giallo canarino dei capelli. Me li
sono fatti tingere ieri sera per festeggiare la partenza, in uno di quegli
eccessivi slanci di entusiasmo che mi prendono ogni tanto.
Un'ora
e mezza di curve e tunnel su una statale perennemente in costruzione, ci
depositano sul lato opposto degli Appennini. Ancona ci accoglie tra le sue lunga
braccia di città-porto. Aspettiamo l'imbarco nella fila separata dei
motociclisti. Siamo un gruppo folto ed eterogeneo, composto in maggior parte da
turisti diretti verso qualche isola greca. Su tutti spicca un drappello di
harleisti tedeschi di mezz'età, con le immancabili tenute sadomaso di pelle
nera e frange. Le loro moto sono un trionfo di cromature e lucine rosse e blu e
accessori after market di gusto kitch. C'è perfino una donna-pilota sulla
quarantina: giubbino di cuoio con il logo Harley Davidson stampato sulla
schiena, sguardo miope dietro gli occhiali di tartaruga e faccia smunta da
professoressa di educazione tecnica alle medie.
Il
traghetto è enorme e moderno, sembra quasi una nave da crociera. L'interno è
sgargiante e pretenzioso, disseminato di poltroncine blu elettrico imbullonate
sul pavimento ricoperto di moquette rosso corallo e di finiture in ottone
lucido. Passiamo in rassegna le diverse possibilità di svago disponibili a
bordo: il piccolo casinò scintillante di slot machine, il duty free shop che
offre a prezzo scontato maglioncini di Benetton e
gioielli di Cartier. Ci sediamo al bancone di marmo luccicante del bar a
bere una birra. Ci guardiamo intorno, gustandoci lo spettacolo del popolo
variegato e coloratissimo che pullula intorno a noi. Spesso i nostri sguardi
s'incontrano in muti commenti.
Ci
attrezziamo per passare la notte all'addiaccio. Troviamo un angolo sul ponte
abbastanza riparato, gonfiamo i materassini, srotoliamo i nostri minuscoli
sacchi a pelo. Quasi tutti i passeggeri stanno scomparendo, inghiottiti con
discrezione dai meandri delle loro cabine. Siamo tra i pochi che passeranno la
notte sul ponte (forse siamo gli unici italiani: ci fanno compagnia solo alcuni
greci dall'aspetto poco vacanziero: deve trattarsi di emigrati che rimpatriano
per passare le ferie con le famiglia).
GIORNO2:
PATRASSO - JOHANINA
(KM 250)
Sbarchiamo
a Patrasso sconvolti di sonno ma tenuti svegli dall'ansia di scoperta, dalla
voglia di entrare nel vivo del viaggio. Dobbiamo subito imbarcarci su un altro
piccolo traghetto, per attraversare lo stretto canale che separa il Peloponneso
dal resto della Grecia. Ancora una mezz'oretta di beccheggi e lento procedere
sulla superficie increspata di un mare scuro e opaco e siamo di nuovo in moto,
finalmente autonomi, la manopola del gas tra le mani, la strada di fronte,
paesaggi sconosciuti intorno a noi a perdita d'occhio. Partiamo senza fretta,
lungo i dolci saliscendi di una strada secondaria, circondata da colline coperte
di uliveti. E' un paesaggio familiare, molto simile a quello dell'Umbria, tutto
sommato.
GIORNO
3: JOHANINA -
LARISSA
- SALONICCO - ASPROVALTA
(KM 500)
Ci
svegliamo presto, nella sudicia bettola di Johanina dove c'ha indirizzato il
proprietario di un pub dove siamo approdati ieri a mezzanotte, stanchi morti e
desiderosi solo di una birra ghiacciata e di una cuccia per dormire qualche ora.
Carla gli ha chiesto d'indirizzarci in un posto very very cheap e lui ha fatto
del suo meglio: l'equivalente di trentamila lire per una doppia non sono molte.
La compagnia dei chiassosi transessuali nella stanza accanto alla nostra era
compresa nel prezzo.
Usciamo
alla ricerca di un bar per fare colazione. Percorriamo quello che sembrerebbe
essere il corso principale di questo strano insediamento industriale circondato
dalle montagne. La passeggiata ci regala il ricordo indelebile del
particolarissimo odore che la città sembra emanare dalle finestre delle case
annerite dallo smog, dalla superficie rugosa del suo asfalto: un misto di nafta
e soffritto di cipolla.
Poi
ci aspettano alcune ore di tornanti lungo una statale stretta e dissestata e
quasi deserta. Sembra di percorrere un passo appenninico. Ogni tanto superiamo
qualche camion ansimante che si lascia dietro una nube scura di gas di scarico.
Per decine di chilometri la strada domina sulla sinistra una vallata lunga e
stretta, percorsa da un torrente impetuoso. Sul fondo valle stanno costruendo
un'autostrada, destinata a ospitare lungo un tracciato più agevole e rettilineo
lo scarso traffico della statale che stiamo percorrendo. La vallata è
disseminata a intervalli regolari di cantieri: depositi di materiale e camion e
cisterne e Caterpillar al lavoro. Tra pochi anni questo paesaggio ameno non
esisterà più. Attraverso l'interfono ci scambiamo meste considerazioni su
quest'ennesimo scempio.
Le
Meteore cominciano a profilarsi all'orizzonte intorno all'ora di pranzo.
Facciamo una deviazione per andarle a vedere da vicino. Sono uno spettacolo
davvero impressionante: nere e levigate, sembrano emerse da abissi oceanici.
Sovrastano la pianura circostante tacite e imponenti, lasciandosi accarezzare la
schiena dai pullman dei turisti. Proviamo a immaginare come doveva presentarsi
questo scenario centinaia di anni fa, senza la folla dei visitatori e i
venditori di souvenir e l'invadenza delle automobili. L'idea che dei monaci,
spinti dalla sete di pace, abbiano pensato di costruire la loro dimora su questi
picchi è inquietante.
L'aura
di misticismo emanata da queste spettacolari manifestazioni di forza della
natura è davvero fortissima. Capace, senza dubbio, d'impressionare degli
spiriti semplici fino a una scelta così estrema e definitiva: un biglietto di
sola andata per una clausura senza mezzi termini. Fanatismo o scelta di vita
ragionata?
Visitiamo
l'interno di uno dei monasteri ortodossi. All’ingresso a Carla viene
consegnata una pesante gonna nera, da indossare sopra i pantaloni. Entriamo in
una piccola chiesa. La densità di figure, la fitta trama delle iscrizioni che
riempiono le pareti ci colpisce. Ogni angolo è disegnato, sfruttato per
raccontare una storia, per insegnare qualcosa. Carla ne è affascinata. A me
invece questa ridondanza di particolari, lo stile sovraccarico delle
decorazioni, incute lo stesso timore che provo all'interno delle chiese
cattoliche. La sensazione di soffocamento, la voglia di fuggire a gambe levate.
Ripartiamo
per Salonicco. La pianura della Tessaglia ci corre sotto velocemente,
disseminata di chiesette con le pareti bianche e il tetto rosso, pastori bambini
e alveari e vecchiette che vendono frutta sul bordo della strada.
L'approccio
con Salonicco sono le sue strade sudice, l’ammassarsi disordinato di palazzi
dalle facciate scrostate, balconi, antenne, smog, cartelloni pubblicitari,
motorini scassati che fanno un rumore assurdo. L'effetto è quello di una
periferia povera e degradata. Decidiamo di non approfondire. La Turchia è
ancora lontana. Sfrutteremo le ultime ore di luce per fare qualche altra decina
di chilometri e guadagnare almeno la costa.
Al
tramonto avvistiamo l'Egeo. Ci fermiamo nel primo paese che incontriamo, una
località balneare di lungomare e localini, atmosfera stanca di fine stagione,
popolazione costituita da famigliole e persone anziane. Troviamo una stanza per
dormire. Troviamo un ristorante per ingozzarci di Soublaki e Moussaka e
formaggio.
GIORNO
4: ASPROVALTA - KAVALA - ALEXANDROPOLI (KM 250)
Ci
svegliamo con la sensazione di aver dormito moltissimo, d'un sonno profondo e
ristoratore. Usciamo dalla pensione direttamente in costume. Dobbiamo solo
attraversare la strada per tuffarci in mare. Una nuotata nell'Egeo, prima di
partire.
La
strada costiera ci culla in morbidi curvoni da quinta piena, alimentando la
nostra sensazione di benessere. Attraversiamo mari gialli di stoppie di grano
appena mietuto, lambiti da laghi scuri di stoppie bruciate.
Alexandropoli
è il traguardo di questa nuova tappa. C'arriviamo al tramonto. Trasportiamo il
nostro agile bagaglio nel solito cheap hotel. Questo è stato ricavato in un
vecchia casa di stile inglese, propri di fronte al piccolo porto. Due piani,
pavimento morbido di moquette, arredamento anni Cinquanta. Ci accoglie una
signora gentilissima, che parla bene l’inglese e il francese. Carla può dare
sfoggio della sua bravura. Io arranco qualche commento nel mio inglese
approssimativo.
Usciamo
a fare un giro sul grigio lungomare cementificato. C'inoltriamo per le strade
regolari che si dipartono perpendicolarmente alla direttrice principale. Man
mano che ci allontana dal centro, ai negozi scintillanti di abbigliamento si
sostituiscono vetrine polverose e male illuminate che offrono merci poco
attraenti. Ovunque si accumulano miseria e sporcizia.
Passiamo
la serata seduti al bancone di una birreria alla moda. L'ambiente è saturo di
fumo e di musica degli U2. Il barista-deejay si muove al ritmo di “Sunday
bloody sunday” e fa roteare in aria i bicchieri, prima di riempirceli di
Heineken ghiacciata. Ci prende in simpatia e ogni paio di boccali che svuotiamo,
ci offre un drink o una tequila. Verso l'una trascino Carla fino alla pensione,
sotto una pioggia battente che non abbiamo sentito cominciare.
GIORNO
5 ALEXANDROPOLI - TEKIRDAG - ISTANBUL (KM
300)
Al
mattino sta ancora piovendo. C'incartiamo accuratamente nelle nostre tute
antipioggia. Ci prepariamo ad affrontare gli ultimi chilometri che ci separano
dalla Turchia. Si sente odore di confine, nei villaggi sempre più poveri che
attraversiamo, nell'infittirsi di basi militari e camion verdi oliva.
La
frontiera. Le operazioni burocratiche ci portano via un'oretta. Vaghiamo da una
scrivania all'altra, compilando moduli, esibendo documenti a funzionari con la
cravatta e la camicia a mezze maniche, pagando bolli. Alle dracme si
sostituiscono le lire turche che, a causa di un'inflazione selvaggia, si contano
a milioni. Finalmente varchiamo il confine. I colori, che erano il bianco e
l'azzurro, diventano il rosso e il bianco. Soldati adolescenti con i mitra in
spalla ci salutano sorridendo.
Penetriamo
in Turchia lungo una statale disegnata senza troppa fantasia: riga e squadra a
tracciare una retta che si perde nell'orizzonte, movimentata solo di tanto in
tanto da qualche saliscendi. Sembra una di quelle solitarie autostrade che
attraversano il deserto americano. Intorno una pianura gialla e sconfinata,
cosparsa di rade case, distribuite senza un criterio visibile. Non ci sono
neppure strade a collegarle. Non si vedono nei dintorni negozi o locali o luoghi
d'aggregazione. Nessuna traccia della vita sociale dei suoi abitanti.
Man
mano che ci avviciniamo a Istanbul le case diventano palazzi a più piani e
tendono a concentrarsi in agglomerati di maggiori dimensioni, a costituire delle
specie di quartieri-satellite dotati di un minimo d'infrastrutture. Incontriamo
gruppi di giovani che camminano ai
bordi della statale, spostandosi probabilmente da un'isola di cemento all'altra.
Talvolta si lanciano in rischiosi attraversamenti. Molti indossano blazer blu,
camicia bianca e cravatta, la tenuta degli allievi delle scuole medie e
superiori.
La
periferia di Istanbul inizia poco dopo, con largo anticipo sulle nostre
previsioni. Mancheranno ancora almeno cinquanta di km al centro e già
cominciano a correrci incontro enormi palazzoni di cemento armato senza balconi,
punteggiati di minuscole finestre, tanto simili a quelli che deturpano le
periferie di qualunque metropoli europea. L'unica differenza è che questi sono
dipinti di celeste, lilla, arancione: colori vivaci scelti forse nel tentativo
di stemperare la tristezza di queste case-alveare. L’effetto è grottesco.
Dalla
statale scivoliamo nel complesso reticolo di tangenziali e raccordi che ingabbia
la città. La navigazione si fa difficoltosa. Carla si da fare come può con la
carta stradale, m'impartisce istruzioni sempre meno convinte. Il traffico
intanto è diventato molto intenso. Veicoli d'ogni tipo ci sfrecciano accanto a
velocità folle, sorpassandoci a destra e sinistra. Mi sembra di giocare una
sorta di roulette russa, tra camion, furgoni, vecchie carcasse d'auto cariche di
spoiler e accessori d'ogni tipo. A un certo punto finiamo su uno degli enormi
ponti che scavalcano il Bosforo. Ci accorgiamo di essere andati troppo oltre
quando leggiamo il cartello "Benvenuti in Asia". Invertiamo la marcia,
seguiamo ad intuito alcune indicazioni di località sconosciute e che non
troviamo sulla carta. Basta un'assonanza, una vaga corrispondenza con nomi che
abbiamo letto (o ci sembra di ricordare di aver letto) sulla guida, per
convincerci a imboccare un'uscita. Ad alcuni bivi decidiamo la direzione
orientandoci col Sole.
Dopo
una buona mezzora ci sembra di aver raggiunto un livello un po' più elevato in
questo immenso videogioco. Il paesaggio che vediamo scorrerci intorno sembra un
tantino meno periferico. Ci fermiamo a chiedere indicazioni. Lo facciamo in
inglese, ma naturalmente i nostri interlocutori non capiscono una parola di
questa lingua. Devono tuttavia riconoscere alcuni dei vocaboli con i quali
infarciamo le nostre richieste, probabilmente qualcuno dei termini che designano
i luoghi verso i quali siamo diretti: Sultanahmet, Topkapi… Allora tutti si
lanciano regolarmente, con lodevole impegno ma scarsa chiarezza, in sproloqui
lunghi e articolati, rigorosamente in turco, conditi da gesti d'ogni tipo: mani
e braccia agitate in mille direzioni diverse disegnando nell’aria svolte,
salite, sottopassaggi.
Chiusa
questa parentesi comica - che ci ha visto anche finire per errore in un
parcheggio di pullman e vagare per buoni dieci minuti al suo interno, prima di
guadagnare l'uscita - riusciamo in qualche modo a raggiungere il centro. Ci
fermiamo a un Tourist Information per farci consigliare una pensione. Ne
scegliamo una nel cuore del Sultanahmet, "stanze linde con doccia, 35 $ la
doppia". C'infiliamo nuovamente nel flusso del traffico, seguendo le
dettagliate indicazioni dell'impiegato. A un semaforo veniamo affiancati da un
poliziotto, su una BMW da enduro dipinta di nero opaco, equipaggiata con sirena,
radio e tutto il resto. Lui è senza casco, fasciato in una tuta blu, anfibi e
mitraglietta a tracolla. Ci guarda con aria di sfida. Più da motociclista che
da tutore dell'ordine. Scatta il verde e lui parte impennando. Incasso in
silenzio.
La
Star Pension corrisponde in pieno alla descrizione della guida. In più è in
una stradina caratteristica e piena di vita, sulla quale si affacciano vecchie
case con la facciata di legno e locali d'ogni tipo. Oggi ospita addirittura una
sorta di mercatino rionale. Dopo una contrattazione breve ma incisiva fissiamo
il prezzo: l’equivalente di 150 $ per cinque notti. Dopo si vedrà. Unica
controindicazione: non hanno il garage. E la moto? No problem. Braccia forti
afferrano il Giesse e lo depositano all'interno di una lavanderia. E' dello
stesso proprietario della pensione. La moto potrà restare qui per tutta la
nostra permanenza, parcheggiata accanto all'asse da stiro dove si affanna una
grassa signora.
Al
tramonto ci sorprende per la prima volta la cantilena dei muezzin, che
altoparlanti gracchianti diffondono in tutto il quartiere. La litania evoca in
noi la suggestione di luoghi e abitudini e stili di vita dei quali finora
avevamo solo letto o sentito parlare. Ci sentiamo davvero lontani da casa,
immersi in una realtà tanto diversa e affascinante.
Istanbul
è immensa e brulicante di persone e veicoli e attività. Tutto sembra
eccessivo: enorme, colorato, profumato, veloce, confuso.
Visitiamo
Santa Sofia e la Moschea Blu, ma anche le moschee minori di quartieri
periferici. Ci facciamo affascinare dall'atmosfera che, invariabilmente, vi
regna. Le troviamo rilassanti, luminose, colorate. Invitano alla pace, infondono
serenità. Oltre che luoghi di culto sembrano veri punti d'aggregazione per la
comunità. Sono così accoglienti che ti fanno venire voglia di restarci a
chiacchierare amabilmente.
Passiamo
alcuni pomeriggi vagando per gli sconfinati mercati che si estendono per interi
quartieri, dove si affollano venditori di merci di ogni tipo, in una stridente
commistione di artigianato e high tech. Ci lasciamo trascinare dal movimento di
fondo che sembra percorrerne le direttrici in un moto perpetuo, dipartendosi in
mille terminazioni secondarie, lungo tentacoli di vie piccole e piccolissime. A
ogni angolo c'è un venditore di kebab. Già dal primo mattino il suo odore
invade la città. A qualsiasi ora e in qualsiasi luogo è possibile vedere
persone che azzannano i tipici panini imbottiti con quella carne speziata. Noi
ne facciamo la base della nostra alimentazione, assaporandone con entusiasmo
ogni variante.
Dal
centro storico, nel quale si concentra gran parte di quello che c'è da vedere e
che pullula, naturalmente, di turisti, allarghiamo il nostro raggio d’azione
utilizzando ogni sorta di mezzo di trasporto: i tram traballanti, i romantici
traghetti che fanno la spola da un versante all’altro del Bosforo, collegando
la parte europea a quella asiatica, la breve linea metropolitana, i temibili
taxi, ricavati da vecchie berline Fiat, accessoriatissimi e guidati in maniera
folle da prepotenti autisti.
Durante
una delle nostre peregrinazioni disordinate finiamo nel quartiere greco
ortodosso. Ci perdiamo nel labirinto di viuzze tortuose, case coloratissime e
diroccate, panni appesi alle finestre, frotte di bambini scalzi e sudici che ti
chiedono qualcosa: soldi o una fotografia o un sorriso. Passiamo anche una
serata nel quartiere di Beyoglu, il più elegante e modaiolo - e quindi meno
caratteristico - popolato di locali di stile europeo, brulicante fino a notte
inoltrata di gente d'ogni risma.
Abbiamo
modo di cogliere i mille volti della miseria di questa città: nella folla che
si assiepa per le strade; nei negozi vuoti e disadorni; nella gente che ti
chiede soldi in cambio dei più disparati servizi; nell’insistenza commovente
dei bambini lustrascarpe; negli sguardi impassibili dei vecchi cenciosi seduti
di fronte a vecchie bilance: una pesata in cambio di una moneta; nei disoccupati
che si offrono come facchini davanti ai camion da scaricare, con una strana
intelaiatura di legno fissata alla schiena con cinghie di cuoio, in attesa di
essere affardellati come asini; nelle numerosissime, minuscole sartorie a buon
mercato; nelle botteghe che sembrano emerse dal nostro dopoguerra e che vendono
bottoni o chiusure lampo o fibbie, o utensili; nelle auto vecchie di
trent’anni; nei palazzi fatiscenti; nelle case di legno abbandonate; nelle
miserabili baracche delle periferie; nell’assenza degli squilli dei
telefonini; nello strano salvagente di un bambino che si immergeva nelle acque
fetide del porto: tante bottiglie di plastica vuote legate insieme con una
corda.
GIORNO
11: ISTANBUL - ANKARA - KAMAN -
KIRSEHIR
- NEVSEHIR (KM 750)
Ripartiamo
da Istanbul con la sensazione di averne solo sfiorato l'essenza. Eppure,
ripensando ai pochi giorni che c'abbiamo trascorso, ci rendiamo conto d’avere
accumulato un’infinità di ricordi.
Forti
dell’esperienza dell’andata, ripercorriamo con maggior sicurezza il
groviglio delle tangenziali. Ci districhiamo
a malincuore dal loro abbraccio metropolitano. Ci lasciamo alle spalle le
sterminate periferie, il loro arcobaleno di alienazione.
Quattro
ore d'autostrada senza storia. Il Giesse torna ad accarezzare i 180. Saliamo un
po'. L'aria si fa frizzante. Scendiamo. Planiamo verso Ankara. La vediamo solo
da lontano e ci appare grigia e senza vita, nascosta dalla nuvola di smog che la
circonda, deposta come per scherzo in mezzo a un deserto stepposo.
Deviamo
a Sud, verso la Cappadocia. Ancora duecentocinquanta km di una strada
praticamente deserta, rivestita di un asfalto approssimativo (lo fanno così:
uno strato di bitume appiccicoso, una gettata di breccia, una passata di
schiacciasassi a compattare il tutto). Attraversiamo un paesaggio irreale, dune
gialle di stoppie di grano a perdita d'occhio, a simulare il Sahara. Ogni tanto
le oasi verdi di un orti fortemente voluti, intorno a case coloniche germogliate
come funghi caparbi.
Si
avvicina il tramonto e l’azzurro del cielo comincia a striarsi di rosa e di
arancio. Su questo sfondo variegato si allarga il giallo oro della Luna piena.
La sua luce piove sul brullo paesaggio che ci circonda fino a saturare
l'atmosfera. Arriviamo a Nevsehir, nel cuore della Cappadocia, immersi nelle
mille sfumature di un crepuscolo che proietta su di noi ombre lunghissime.
I
colori e le luci sembrano rappresentare l’unica ricchezza di questo paese che,
per il resto, ci appare piuttosto squallido. Rimediamo a prezzo ridicolo una
stanza in un alberghetto di quart’ordine. La povertà si percepisce
nell’esagerata cortesia del personale, nelle ridondanti manifestazioni di
gratitudine nelle quali si sciolgono per una mancia pari all’equivalente di
poche centinaia di lire. Non c’è acqua calda, naturalmente. Immobilizzo Carla
sotto un getto di acqua gelida, incurante delle sue urla. Ci facciamo in due una
doccia veloce e approssimativa, prima di uscire a cercare un posto dove mangiare
qualcosa.
Sono
appena le nove ma le strade sono già deserte. L’ultimo locale illuminato
sulla strada principale ha la serranda mezza abbassata. I camerieri sono riuniti
a un tavolo a banchettare con gli avanzi della giornata. Il padrone, seduto
dietro la cassa, conta i soldi dell’incasso, mazzetti di banconote sdrucide
dagli importi milionari. Ci affacciamo alla porta titubanti, temendo quasi di
disturbare. Veniamo invece accolti con mille riguardi, accompagnati a un tavolo,
sfamati con l’ennesimo kebab, che la fame e la stanchezza ci fanno sembrare
davvero delizioso.
La
mattina ci sorprende con il frastuono del traffico disordinato che intasa la
strada del nostro albergo, composto da vecchie moto, furgoni scassati, carretti
di venditori ambulanti, gruppi di studenti incravattati che vanno a scuola. Di
tanto in tanto al rumore di fondo si unisce l’urlo del muezzin, gracidante a
tutto volume dall’altoparlante della vicina moschea. Scendiamo nello stanzone
che funge da ristorante, vuoto e miserabile, nel suo arredamento pomposo e
fatiscente di velluti viola e logori. Ci riforniamo di energia con una generosa
colazione alla turca: ricotta salata, uova sode, pomodori, cetrioli e il pane
bianco e morbido che si trova da queste parti. Ci beviamo sopra diverse tazze di
caffè solubile. Ci sentiamo riposati e carichi di aspettative per le giornate
che passeremo in questa regione nuova e affascinante.
Recuperiamo
il Giesse dal suo nuovo garage: questa volta è un piccolo ristorante, gestito
da un amico dell’albergatore. Dentro ci sono un paio di clienti che fanno
colazione, per nulla stupiti, accanto alla moto impolverata. Partiamo alla
scoperta della Cappadocia, lungo strade strette e male asfaltate, che
s’insinuano nelle pieghe di questo frastagliato deserto di pietra.
La
Cappadocia è una distesa infinita di formazioni rocciose di un giallo-grigio
che la luce del tramonto accende di rosa, dalla forma stravagante, modellata nel
corso dei millenni dalla fantasia degli agenti atmosferici. Alcune delle pareti
tufacee sono state scavate, in tempi preistorici, per ricavarne abitazioni
fresche e difficilmente attaccabili, costituendo villaggi trogloditi che oggi
emanano un fascino inquietante e misterioso. La regione è talmente ampia da
riuscire ad assorbire con disinvoltura la massa di turisti, mantenendo un
aspetto ameno e incontaminato.
Trascorriamo
alcune giornate passeggiando lungo stretti sentieri che costeggiano un paesaggio
monotono. Ci capita di passare ore intere senza incontrare nessuno.
L’unica
presenza sono gli spettri degli antichi abitanti di queste grotte scavate nel
tufo, i disegni e le iscrizioni che testimoniano il loro passaggio in questa
landa infuocata. Il silenzio ossessivo ci assorda; perfino i rari rumori, il
lento frusciare del vento ci giungono come attutiti. Reduci da caotiche giornate
metropolitane ci sentiamo sbalzati su un altro pianeta, inospitale e ricco di
suggestioni.
Combattiamo
la vertigine inerpicandoci sui pinnacoli di antiche fortificazioni, il senso di
claustrofobia percorrendo i cunicoli bui di sconfinate città sotterranee.
Torniamo al nostro albergo-topaia la sera, esausti e impolverati.
Recuperando
la moto dopo una di queste escursioni conosciamo un terzetto di ragazzi svedesi.
Viaggiano su tre XT 600 nuove di zecca, equipaggiate con enormi motovaligie
d’alluminio e serbatoi maggiorati. Ci scambiamo commenti sulla Turchia, sulle
motociclette, sulle strade malconce che abbiamo percorso per giungere fin qui.
Poi loro ci raccontano l’avventura stupenda che hanno progettato alcuni anni
fa, che stanno realizzando da un paio di mesi. Espongono con naturalezza la
semplice ricetta di questo sogno. Prendere un periodo d’aspettativa dal
lavoro, prosciugare il conto in banca, comprare tre motociclette uguali e
partire per un viaggio attraverso buona parte del Nord Europa e poi Turchia,
Siria, Giordania, Israele, per concludere in Nord Africa (in Marocco, forse…).
Tempo di percorrenza: un anno, per poter fare le cose con calma, senza dover
rimpiangere, poi, di non essersi potuti trattenere un po’ più a lungo in una
località particolarmente suggestiva. Incassiamo il colpo e ripartiamo pieni
d’invidia, il nostro viaggio avventuroso, lungamente cullato nel nostro
immaginario, improvvisamente ridimensionato a una scampagnata fuori porta.
GIORNO
15: NEVSHEIR - SULTANHANI - KONYA (KM 250)
Il
tempo per noi scorre inesorabilmente. Il numero delle giornate di ferie residue
si assottiglia. Ingoiamo la voglia di restare, raccogliamo le nostre cose e
ripartiamo, sulle ali della voglia di continuare.
Puntiamo
verso Konya. Attraversiamo l’altopiano dell’Anatolia lungo una superstrada
rettilinea che ripercorre un’antica via carovaniera. In mezza giornata ci
lasciamo alle spalle l’equivalente di settimane di trasferimento a dorso di
cammello, d’asino, di cavallo, al seguito di lenti carri stracarichi di merci.
Ci corrono incontro a velocità stratosferica le migliaia di pali di legno delle
linee elettriche, che costeggiano la strada con costanza commovente, lungo
centinaia di km di uniformità disarmante. Che andiamo forte se ne accorge anche
l’assonnata polizia turca. Ci becca in flagrante la fleshata di un inatteso
autovelox. Poco più avanti c’è il posto di blocco, dove riceviamo
incomprensibili spiegazioni e veniamo alleggeriti di svariati milioni (solo
sessantamila lire, al cambio, per fortuna).
A
Sultanhani ci fermiamo a visitare il Caravanserraglio. La costruzione si erge
sui suoi blocchi di pietra squadrata, come un miraggio nella polvere del
circondario (tale doveva apparire agli stanchi mercanti delle carovane, per i
quali rappresentava la tappa intermedia del viaggio interminabile verso Ankara).
Attorno alle sua mura imponenti è sorto disordinatamente un miserabile
villaggio di baracche e case fatiscenti e locali bui e spogli, affollatissimi di
vecchi intabarrati che sorbiscono thè o caffè. I pigri avventori fissano me e
Carla e la moto con aperta curiosità. Sembrano colpiti soprattutto da Carla,
dalla sua tenuta da motociclista. E’ evidente come, mano a mano che ci si
allontana dal cosmopolitismo metropolitano di Istanbul, da quello della
Cappadocia, determinato dai flussi turistici, vada crescendo l’influenza dei
costumi di vita islamici. Nei villaggi dell’entroterra che incontriamo si
respira una maggiore intransigenza: le donne hanno sempre il capo coperto, i
locali sono frequentati da soli uomini, è bandita dalle strade qualsiasi
manifestazione troppo chiassosa o irriverente.
A
Konya si coglie più che altrove il contrasto tra i costumi occidentali e quelli
tradizionali. Antico e moderno convivono in una commistione inestricabile di
carri trainati da cavalli e automobili luccicanti. Passiamo un paio di giornate
oziose, in giro per i negozi e i bazar. La sforzo maggiore sembra essere quello
di respingere gli innumerevoli venditori di tappeti, che ci arpionano ogni pochi
metri con i loro “where are you from”. E’ il prezzo che dobbiamo pagare
per poter osservare da vicino lo spettacolo affascinante della realizzazione di
queste opere. Donne impassibili con mani da bambine annodano con movimenti
velocissimi i fili di diversi colori su una trama principale di sottili funi
parallele, tese su un’intelaiatura di legno. Quello che non sembra altro che
un groviglio sfilacciato poi viene compattato con una specie di pesante pettine
metallico e rasato con una lama affilatissima. Lentamente, fila dopo fila, mese
dopo mese, emergono dal nulla coloratissime decorazioni geometriche, disegni di
stupefacente perfezione. E’ un lavoro di pazienza che ai nostri occhi appare
assolutamente snervante come pure inconcepibile, per la pragmatica mentalità
occidentale, è la quantità di tempo necessario per tessere un tappeto con
questa tecnica.
GIORNO
18: KONIA - BEYSEHIR - ANTALYA - KEMER (KM 400)
Lasciando
Konya il paesaggio cambia di nuovo. Per raggiungere la costa dobbiamo scavalcare
l’imponente catena montuosa dei Tauri, svelando un nuovo aspetto di questa
nazione dagli infiniti paesaggi. Saliamo di quota. Alle gialle pianure
dell’Anatolia si sostituiscono gli speroni di roccia e i sassi di queste
montagne inospitali. I villaggi si diradano. La strada si fa sempre più stretta
e ripida intricandosi in un’infinità di tornanti. Le uniche presenze umane
sono i venditori al bordo della strada che offrono ai rari passanti miele,
frutta, bibite. Tocchiamo quota duemila e cinquecento. Il freddo si fa pungente.
Poi inizia la discesa. Scivoliamo a valle per decine di chilometri.
All’improvviso vediamo profilarsi all’orizzonte la striscia azzurra del
mare.
Iniziamo
la risalita della costa turchese in senso antiorario. Assorbiamo il cambiamento
climatico e il nuovo profumo salmastro. Dopo alcuni giorni di clima continentale
siamo ripiombati in un’estate torrida. D’ora in poi sarà già un po’
ritorno.
Raggiungiamo
Antalya. Ne sfioriamo appena la periferia, così simile a quella delle altre
città turche che abbiamo incontrato fin ora. Viaggiamo per il resto della
giornata lungo una strada litoranea rettilinea e un po’ monotona, che guadagna
movimento e panorami mano a mano che la costa si fa più frastagliata. Ci
fermiamo a Kemer, località turistica consigliataci da un venditore di tappeti
di Konya.
Kemer
sembra un immenso villaggio Valtur per turisti europei di mezz’età.
Passeggiamo per un largo viale porticato, affollato da tedeschi e polacchi in
bermuda, costellato di fast food e negozi di abbigliamento italiano. Ovunque
gambe bianche e flaccide, borselli a tracolla, vecchie grasse e ingioiellate a
caccia di un’ultima conquista da fine stagione, venditori ambulanti
insolitamente aggressivi. Restiamo a Kemer il tempo di cenare, di dormire
qualche ora in una camera rimediata a poco prezzo presso una famiglia locale.
GIORNI
19, 20: KEMER - KAS - FETHIYE - OLUDENIZ
(KM 250)
Ripartiamo
di buon ora, accompagnati da un sole implacabile, lungo una strada splendida che
ci offre una gamma infinita di paesaggi, a tratti arrampicandosi sulle montagne
scoscese che sorgono quasi a picco sul mare, a tratti tornando a seguire da
vicino una costa rocciosa, nella quale ogni tanto si aprono delle spiaggette
candide.
Arriviamo
a Kas, che ci innamora immediatamente col suo aspetto pittoresco e sbiadito di
borgo di pescatori. Resteremmo volentieri qualche giorno in questo villaggio
senza tempo, alla scoperta delle sue numerose spiagge di sabbia e di ciottoli
fronteggiate da un mare verdazzurro, ma il tempo stringe e dopo un paio di
giorni proseguiamo per la penultima tappa in terra turca.
GIORNI
20, 21: OLUDENIZ - FETHIYE - MUGLA - AYDIN - KUSADASI (KM 300)
Oludeniz
si rivela una località più modaiola, posta ai margini di una splendida laguna
di acqua trasparente, separata dal mare aperto da una sottile lingua di sabbia.
Alle spalle della spiaggia si stagliano delle formazioni rocciose scure e
coperte di vegetazione, le cui cime si perdono tra le nuvole a una quota che non
deve essere inferiore ai duemila metri. Il contesto si presta incredibilmente
bene alla pratica del parapendio, che ben presto scopriamo essere lo sport
locale. Già nelle prime ore del mattino il cielo si popola di vele colorate. Io
e Carla restiamo affascinati a fissare lo spettacolo. A gruppi di dieci o
quindici i paracadutisti si lanciano dalle montagne a ridosso della spiaggia e,
dopo aver volteggiato nell’aria per alcuni minuti, atterrano su un piazzale di
cemento ricavato in uno slargo del lungomare. I più bravi riescono a far
stallare il paracadute a pochi metri da terra e atterrano in piedi, con elegante
disinvoltura, all’interno di un cerchio disegnato come bersaglio. Quando
sgusciano fuori dalle tute scopriamo dalla carnagione e dagli accenti che si
tratta di paracadutisti provenienti da ogni angolo d’Europa. Oloudeniz è una
specie di ritrovo per appassionati di parapendio e non è difficile immaginare
il motivo. Deve essere meraviglioso volteggiare sopra questa laguna verde
smeraldo, dominando dall’alto un paesaggio incantevole, fatto di mare e di
montagna.
Siamo
ripartiti da Oloudenitz alla volta di Kusadasi, che dovevamo raggiungere in
serata. Lì avremmo passato l’ultima notte in Turchia. La mattina dopo avremmo
preso un traghetto per l’isola di Samos, già in territorio greco, dove ci
attendeva la coincidenza con un secondo traghetto, che ci avrebbe portato a
Atene.
A
Kusadasi arriviamo invece a mezzanotte passata, dopo ore di valzer su e giù per
la tortuosissima litoranea, che ci ha costretto a una media ridicola. Il nostro
traghetto partirà alle sette del mattino. Pagare una camera per poche ore di
sonno ci sembra un’inutile spreco. Decidiamo di fare nottata in giro per il
paese. Partiamo senz’altro alla ricerca di qualche locale aperto.
Kusadasi
sembra deserta e senza storia, anonima e assopita. Ne percorriamo le strette
strade un po’ demoralizzati, con la moto carica di bagagli e le nostre schiene
cariche di chilometri, gli occhi stanchi di cogliere paesaggi e indicazioni
stradali, il culo che fa male, dopo tante ore di sella. Stiamo per rinunciare al
nostro proposito quando cogliamo l’eco lontano ma inconfondibile della disco
music sparata a tutto volume. Come topi incantati da un pifferaio, seguiamo la
scia sonora pieni di speranza e di curiosità. C’inoltriamo in un labirinto di
strade secondarie e vicoli sconnessi con le orecchie ben tese. Le vibrazioni dei
bassi percorrono le mura scrostate di case fatiscenti, aumentando d’intensità
mano a mano che ci avviciniamo alla loro fonte. Giungiamo in una zona meno
periferica. Comincia a vedersi un po’ di gente per strada. Attraversiamo sotto
lo sguardo severo di alcuni poliziotti quella che sembrerebbe essere un’area
pedonale. Sbuchiamo in un largo viale sfavillante di luci e di rumori.
All’improvviso ci sembra di essere finiti nel lungomare di Rimini nel pieno
della stagione. Lungo la strada si allineano a perdita d’occhio una serie di
disco bar affollatissimi. Dalle porte aperte fuoriescono decine di ritmi
musicali che si mescolano in un frastuono di fondo. Ragazzi e ragazze turchi ed
europei si accalcano davanti alle entrate, arginati da nerboruti buttafuori.
Parcheggiamo la moto e ci buttiamo nella mischia.
Scegliamo
un locale affollato. Ci facciamo largo nella cortina di musica e fumo e gente
che balla, nell’odore intenso di sigarette e traspirazione. Guadagnamo il
bancone e ordiniamo un paio di birre. Le buttiamo giù senza troppi complimenti.
Sciacquiamo via un po’ di polvere del viaggio, l’arsura accumulata in tanti
chilometri di strada sotto il sole impietoso di questa giornata lunghissima.
Ordiniamo di nuovo da bere, senza badare a spese, per oggi: dobbiamo bruciare
gli ultimi milioni di lire turche: inutile cambiarli un’altra volta, facendoci
dissanguare dalle commissioni di cambio… Con questa scusa parte la terza
birra, mentre l’alcool comincia a impastarsi con la stanchezza. Ci lasciamo
trasportare dall’ebrezza leggera, dalle note distorte dell’heavy metal
dozzinale che suonano in questo locale. Carla mi trascina in mezzo alla pista.
La seguo, stralunato e legnoso e accaldato, nel giubbotto di cuoio da moto che
non mi fido ad abbandonare da qualche parte. Ci mettiamo a ballare pure noi,
sudando e sgomitando nel caldo umido e alcolico che ci avvolge.
La
pista è affollata soprattutto di giovani turchi e di ragazze tedesche o
inglesi, bionde e slavate e invariabilmente molto abbondanti. I giovani turchi
le dardeggiano di occhiate cariche di desiderio. Io non perdo di vista Carla e
mi gusto lo spettacolo.
Usciamo
dal locale e imbocchiamo l’entrata immediatamente accanto. Veniamo accolti da
sonorità pesanti di Acid House e dalla solita miscela di fumo e sudore. I
milioni da spendere sono ancora diversi. Guadiamo il nuovo fiume di umanità
scalmanata, approdiamo a un nuovo bancone. Ordiniamo un paio di drink.
La
giostra prosegue fino alle quattro quando, come se fosse suonata la fine delle
lezioni, la musica si spegne. Tutti i locali si svuotano contemporaneamente. La
gente defluisce ordinatamente nella strada. I ragazzi spariscono rapidamente nei
vicoli bui, a piedi, su moto scassate e motorini rumorosi. Le tedesche grasse,
stropicciate e con le gote accese, imboccano a gruppetti di quattro o cinque la
strada delle pensioni a buon mercato dove alloggiano. Le più fortunate
s’imboscano con la conquista della sera.
Ci
restano ancora un paio di ore alla partenza del traghetto. Le passiamo
sonnecchiando su una panchina del porto, in attesa dell’apertura
dell’ufficio doganale.
Alle
11 approdiamo a Samos, isola greca a pochi chilometri dalla costa turca. Qui
dobbiamo prendere la coincidenza col secondo traghetto che, secondo le incerte
informazioni che abbiamo raccolto in Turchia, dovrebbe partire nel pomeriggio.
Passeggiamo nel porticciolo di case imbiancate a calce, sovrastato da brulle
colline pietrose, sotto il Sole ardente di mezzoggiorno. Troviamo l’ufficio
della compagnia di navigazione. Entriamo a fare i biglietti. Un’odiosa
impiegata c’informa senza troppi complimenti che il primo traghetto per Atene
partirà solo il giorno dopo.
La
notizie ci sorprende. Facciamo rapidamente due conti e c’accorgiamo che non
riusciremo a rientrare a Perugia per il lunedì successivo. Ci tocca avvertire
in ufficio che tarderemo di un giorno. Quest’imprevisto ci restituisce
crudelmente la dimensione della nostra scarsa libertà di movimento. In questi
giorni abbiamo vissuto senza programmi predefiniti, guidati unicamente
dall’ispirazione del momento e dalla nostra curiosità. Ora la catena dei
doveri quotidiani ci serra di nuovo le caviglie. Abbiamo allungato il collo fino
al limite del nostro campo d’azione: non possiamo fare altro che tornare
indietro.
Chiamiamo
in Italia e parliamo coi nostri rispettivi capi ufficio. Le loro voci ci
giungono consuete, impastate del grigiore di un quotidiano che non amiamo. Ci
restituiscono, moltiplicata per cento, l’insofferenza antica. Sentiamo che il
viaggio è davvero finito. Ancora una notte in quest’isola, un paio di
traghetti, un breve trasferimento e saremo di nuovo a Perugia. A casa.